CGIA: pro e contro il salario minimo, rischio lavoro nero
Mestre – Nel caso fosse introdotto per legge il salario minimo a 9 euro lordi all’ora, secondo la CGIA potrebbe esserci il serio pericolo di veder aumentare nel Paese il lavoro irregolare, in particolare nei settori dove attualmente i minimi tabellari sono molto inferiori alla soglia proposta dal disegno di legge presentato nei giorni scorsi alla Camera; si tratta, spesso, di comparti “fiaccati” da una concorrenza sleale molto aggressiva praticata dalle realtà che da sempre lavorano completamente il “nero”. Stiamo parlando dell’agricoltura, del lavoro domestico e di alcuni comparti presenti nei servizi. In altre parole, non è da escludere che molti imprenditori, costretti ad aggiustare all’insù i minimi salariali, potrebbero essere tentati a licenziare o a ridurre l’orario ad alcuni dei propri dipendenti, “costringendoli” comunque a lavorare lo stesso, ma in “nero”. L’adozione di questa “contromisura” consentirebbe a molte attività di contenere i costi e di non scivolare fuori mercato. A livello territoriale il pericolo potrebbe interessare in particolar modo il Mezzogiorno che, già oggi, conta una economia sommersa molto diffusa, con una incidenza che sfiora il 38 per cento del totale degli occupati non regolari presenti in Italia (in termini assoluti 1,1 milioni di persone su un totale di 2,9). Nonostante questa criticità, la CGIA è comunque favorevole all’introduzione di un salario minimo orario di 9 euro lordi all’ora, purché al trattamento economico minimo (TEM), ovvero i minimi tabellari previsti dai singoli CCNL, si aggiungano le voci che compongono la retribuzione differita. Elementi questi ultimi presenti nel contratto collettivo nazionale che costituiscono il cosiddetto trattamento economico complessivo (TEC). I ratei delle principali voci da sommare al TEM per ottenere il salario minimo orario lordo sarebbero: – bilateralità; – fringe benefit (buoni pasto, auto aziendale, cellulare aziendale, voucher, borse di studio, etc.) – indennità (trasferta, lavoro notturno, lavoro festivo, etc.); – premi; – scatti di anzianità; – tredicesima; – quattordicesima; – trattamento di fine rapporto; – welfare aziendale. Gli ultimi dati disponibili resi noti dall’Istat, segnalano che in Italia ci sono tra i 650 e i 700 mila apprendisti; vale a dire giovani assunti con un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e all’occupazione giovanile. La durata del contratto varia in ragione della tipologia dello stesso: mediamente oscilla tra i 3 e i 5 anni. In linea generale, inoltre, la retribuzione mensile di un apprendista si aggira attorno agli 800 euro netti. L’importo è basso perché risponde alla filosofia di questo istituto che, introdotto nel 1955, è rivolto a under 30 che entrano nel mercato di lavoro senza alcuna esperienza lavorativa e al termine di questo percorso, grazie all’attività di tutoraggio realizzata dall’azienda che li ospita, acquisiscono una professione. Per contro, l’investimento realizzato dall’imprenditore viene “premiato” con la possibilità di beneficiare di un forte abbattimento del costo del lavoro. Ora, stando ai dati riportati dall’Istat, oltre il 28 per cento del totale degli apprendisti presenti in Italia (in termini assoluti corrispondono a quasi 205 mila giovani) ha una retribuzione mediana oraria pari a poco meno di 7 euro. Sono dipendenti che nella stragrande maggioranza dei casi sono stati assunti da poco; infatti, questi apprendisti con retribuzione oraria sotto soglia presentano un numero medio di ore lavorate inferiore a circa il 20 per cento degli apprendisti più “anziani” che, invece, presentano una retribuzione oraria mediana pari a poco più di 9,5 euro. E’ evidente che se agli apprendisti neoassunti la retribuzione minima oraria fosse innalzata a 9 euro lordi, nel giro di qualche anno registreremo un crollo dell’utilizzo di questo contratto. Per le imprese, infatti, assumere un giovane alle prime armi senza alcuna esperienza alle spalle con un contratto di apprendistato non sarebbe più conveniente. Altresì, va ricordato che con questo contratto sono tantissime le generazioni di lavoratori che sono diventati dapprima degli ottimi operai specializzati e poi anche degli imprenditori di successo. Anche per queste ragioni storiche e culturali, l’istituto dell’apprendistato va salvaguardato e, pertanto, “esonerato” dall’applicazione dell’eventuale salario minimo legale a 9 euro all’ora. Gli ultimi dati disponibili in grado di dirci quanti lavoratori attualmente percepiscono meno di 9 euro lordi all’ora non sono recentissimi (2020). Altresì, non siamo nemmeno a conoscenza del numero di coloro che, prendendo come “unità di misura” il TEC, percepiscono una soglia retributiva oraria inferiore ai 9 euro. L’unica fonte in grado di avvicinarsi a quest’ultima “misurazione” è l’Inps; includendo al minimo tabellare (TEM) solo il rateo della tredicesima e del Tfr, il numero di coloro che in Italia non raggiungono il salario minimo, così come previsto dal ddl presentato nei giorni scorsi dai partiti dell’opposizione, è di 1,9 milioni. Se a questi sottraiamo i 205 mila apprendisti che a nostro avviso non devono essere coinvolti da questo provvedimento, la platea dei lavoratori “poveri” si riduce a 1,7 milioni. Va altresì ricordato che questo dato è sicuramente sovrastimato. In primo luogo perché i dati sono riferiti a tre anni fa (nel frattempo molti contratti sono stati rinnovati) e in secondo luogo per via del fatto che i dati Inps non includono, oltre alla tredicesima e al Tfr, il valore economico di molti altri elementi che, come abbiamo illustrato più sopra, costituiscono il TEC (bilateralità, fringe benefit, indennità, quattordicesima, premi, scatti di anzianità, etc.). Sempre secondo i dati Inps estrapolati dalla relazione richiamata in precedenza, i dipendenti interessati dal salario minimo per legge godrebbero di 3,3 miliardi di reddito in più. Le imprese, invece, dovrebbero sostenere un costo aggiuntivo di almeno 4,6 miliardi, mentre per le casse dello Stato l’aumento delle retribuzioni comporterebbe un incremento del gettito Irpef e di quello contributivo pari a 1,5 miliardi di euro. Questi dati, comunque, sono sottostimati; gli importi appena citati sono stati stimati dall’Inps prendendo come riferimento una retribuzione oraria minima di 8 euro. Al netto del rischio lavoro nero e degli effetti sull’istituto dell’apprendistato, è indubbio che abbiamo la necessità di elevare le retribuzioni per garantire un tenore di vita più dignitoso, in particolar modo ai lavoratori più deboli. Da un punto di vista macro economico, ad esempio, con più soldi in tasca è verosimile ritenere che i consumi delle famiglie sarebbero destinati ad aumentare, dando così un impulso importante all’economia dell’intero Paese. Le casse dello Stato, inoltre, potrebbero contare anche su un maggiore gettito fiscale e contributivo. Non solo. La letteratura specializzata ci segnala che i bassi salari portano a una diminuzione dell’impegno e quindi dell’efficienza delle maestranze nei luoghi di lavoro. Per contro, l’adozione di un salario minimo per legge provocherebbe un aumento certo dei costi in capo alle aziende che, molto probabilmente, verrebbero ammortizzati attraverso un conseguente incremento dei prezzi dei prodotti finali. Così facendo, a pagare il conto sarebbero i consumatori finali. A livello micro, invece, bisogna tener conto anche dell’effetto trascinamento che l’introduzione del salario minimo per legge avrebbe nei confronti dei livelli retributivi che oggi si trovano sopra i 9 euro lordi. Appare evidente che, se si dovesse toccare all’insù la retribuzione per i livelli più bassi, la medesima operazione dovrebbe essere effettuata anche per gli inquadramenti immediatamente superiori. Diversamente, molti lavoratori si vedrebbero ridurre o addirittura azzerare il differenziale salariale con i colleghi assunti con livelli inferiori, pur essendo chiamati a svolgere mansioni superiori a questi ultimi. L’introduzione di un salario minimo per legge non rappresenta l’unica soluzione per rendere più pesanti le buste paga, principalmente quelle più basse. Sarebbe opportuno, come in parte ha fatto sia il Governo Draghi sia quello Meloni, ridurre il cuneo, in particolar modo la componente fiscale in capo ai lavoratori dipendenti e bisognerebbe rinnovare i contratti. Altresì, andrebbe incentivata la contrattazione decentrata (ovvero quella territoriale o aziendale), in modo tale da legare gli aumenti salariali aggiuntivi a quelli previsti dal CCNL alla produttività. Ricordiamo che, purtroppo, oggi solo un terzo dei lavoratori dipendenti del settore privato può beneficiare degli effetti della contrattazione di secondo livello.