CGIA: la Pubblica Amministrazione non paga le Pmi
Mestre – La Pubblica Amministrazione (PA) italiana presenta un debito commerciale di parte corrente nei confronti dei propri fornitori, in gran parte Pmi, che nel 2022 ha toccato i 49,6 miliardi di euro; praticamente lo stesso livello che avevamo nel 2019, anno pre-pandemia. In rapporto al Pil, i mancati pagamenti in Italia ammontano al 2,6 per cento. Nessun altro paese dell’UE a 27 registra un’incidenza così elevata. Insomma, nonostante gli sforzi, la nostra PA continua a essere la peggiore pagatrice d’Europa. Inoltre, il risultato che emerge dal confronto con i principali partner europei è impietoso: in rapporto al Pil, nel 2022 i debiti commerciali della Spagna erano pari allo 0,8 per cento, in Francia all’1,5 e in Germania all’1,6. A dirlo è l’Ufficio studi della CGIA che ha elaborato i dati presentati nei giorni scorsi dall’Eurostat. Va altresì ricordato che in questi 49,6 miliardi di mancati pagamenti sono inclusi quelli di parte corrente, ma non quelli in conto capitale. Si stima che, in riferimento a questi ultimi, potrebbero non essere stati ancora onorati un’altra decina di miliardi di euro. E’ utile ricordare che nel 2022 la Pubblica Amministrazione italiana ha speso per il suo funzionamento e per migliorare le performances del Paese complessivamente 171,4 miliardi di euro; di cui 115,2 di consumi intermedi2 e 56,2 di investimenti pubblici. Ancorché una buona parte dei 49,6 miliardi di mancati pagamenti siano maturati prima del 2022, in linea puramente teorica possiamo affermare che il 43 per cento dei consumi intermedi della PA non sarebbe stato ancora liquidato. Va segnalato che negli ultimi anni i ritardi di pagamento, misurati attraverso l’Indice di Tempestività dei pagamenti (ITP)3 sono mediamente in calo, anche se secondo la Corte dei Conti4 si starebbe consolidando una tendenza che vede le Amministrazioni pubbliche privilegiare il pagamento in tempi brevi delle fatture di importo maggiore e ritardare intenzionalmente la liquidazione di quelle di importo meno elevato. Una modalità operativa che se da un lato mantiene basso il valore dell’ITP, dall’altro penalizza le piccole imprese che, generalmente, lavorano in appalti o forniture di importi nettamente inferiori a quelli “riservati” alle attività produttive di dimensione superiore. Va altresì segnalato che dall’estrapolazione dei dati degli ITP delle singole amministrazioni locali è emerso che molte realtà hanno migliorato le loro performance nel 2022, ottenendo valori negativi (ovvero hanno pagato in anticipo), ma i ritardi permangono elevati per i pagamenti riferiti agli anni precedenti. In buona sostanza, tante realtà amministrative liquidano per tempo le fatture dell’anno corrente, mentre tralasciano intenzionalmente quelle ricevute in passato. Analizzando i dati relativi all’Indicatore di Tempestività dei Pagamenti (ITP) del 2022, solo 3 Ministeri italiani su 15 hanno rispettato i termini di legge previsti nelle transazioni commerciali tra un’Amministrazione dello Stato e un’impresa privata 5 . Se il MEF (con ITP pari a -1,27), gli Esteri (-4,75) e l’Agricoltura (-4,88) hanno saldato i propri fornitori in anticipo, tutti gli altri, invece, hanno pagato dopo la scadenza pattuita. Tra i più ritardatari segnaliamo il ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (27,51 giorni di ritardo), l’Università/Ricerca (+38,32)6 e l’Interno (+49,26). Maglia nera va all’ex MISE, ovvero l’attuale ministero delle Imprese e del made in Italy, che l’anno scorso ha saldato i propri fornitori con un ritardo di 85,40 giorni, praticamente dopo 3 mesi dalla scadenza. A livello territoriale la situazione più critica si verifica nel Mezzogiorno, dove i ritardi dei pagamenti assumono dimensioni molto preoccupanti. Tra le Amministrazioni regionali, ad esempio, nel 2022 il Molise ha saldato i propri fornitori con un ritardo di 69 giorni e l’Abruzzo addirittura dopo 74. Male anche il Piemonte che l’anno scorso ha liquidato le fatture ricevute dopo 65 giorni dalla data della scadenza pattuita. Anche tra le Città Metropolitane, quelle del Sud sono, in linea di massima, le peggiori pagatrici. Sempre nel 2022, quella di Reggio Calabria ha registrato un ritardo di quasi 19 giorni, quella di Messina ha sfiorato i 25 e quella di Catania ha toccato i 27 giorni. Tra le principali Aziende sanitarie pubbliche del Centro Sud, invece, Catanzaro ha liquidato i propri fornitori dopo 43 giorni di ritardo, l’ASP di Reggio Calabria dopo 56 e l’ASP di Crotone dopo quasi 113 giorni. Tra i Comuni capoluogo di provincia, infine, le situazioni più difficili si sono verificate a Reggio Calabria (61,43 giorni di ritardo), Chieti (+69,47), Isernia (+93), Andria (+99,09) e Cosenza (+126,25). “Drammatica” la situazione maturata nel Comune di Napoli: nel 2022 i pagamenti sono avvenuti con un ritardo di 206 giorni. Con la sentenza pubblicata il 28 gennaio 2020, la Corte di Giustizia Europea ha affermato che l’Italia ha violato l’art. 4 della direttiva UE 2011/7 sui tempi di pagamento nelle transazioni commerciali tra amministrazioni pubbliche e imprese private. Sebbene in questi ultimi anni i ritardi medi con cui vengono saldate le fatture in Italia siano in leggero calo, nel 2021 la Commissione europea ha inviato al Governo Draghi una lettera di messa in mora sul mancato rispetto delle disposizioni previste dalla direttiva europea approvata 10 anni fa. Soluzione? Consentire la compensazione tra debiti fiscali e crediti commerciali Per risolvere questa annosa questione che sta mettendo a dura prova la tenuta finanziaria di tantissime Pmi, per la CGIA c’è solo una cosa da fare: prevedere per legge la compensazione secca, diretta e universale tra i crediti certi liquidi ed esigibili maturati da una impresa nei confronti della PA e i debiti fiscali e contributivi che la stessa deve onorare all’erario. Grazie a questo automatismo risolveremmo un problema che ci trasciniamo appresso da decenni. Senza liquidità a disposizione, infatti, tanti piccoli imprenditori si trovano in grave difficoltà e in un momento così delicato per l’economia del Paese. Le principali cause che hanno originato a questa cattiva abitudine che ci trasciniamo da decenni sono le seguenti: la mancanza di liquidità da parte del committente pubblico; i ritardi intenzionali; l’inefficienza di molte amministrazioni a emettere in tempi ragionevolmente brevi i certificati di pagamento; le contestazioni che allungano la liquidazione delle fatture. A queste cause ne vanno aggiunte almeno altre due che, tra le altre cose, hanno indotto, nel gennaio del 2020, la Corte di Giustizia europea a condannarci. Esse sono: la richiesta, spesso avanzata dalla PA nei confronti degli esecutori delle opere, di ritardare l’emissione degli stati di avanzamento dei lavori o l’invio delle fatture; l’istanza rivolta dall’Amministrazione pubblica al fornitore di accettare, durante la stipula del contratto, tempi di pagamento superiori ai limiti previsti per legge senza l’applicazione degli interessi di mora in caso di ritardo.