Confcommercio: il commercio tra pandemia e crisi economica (1)
Roma – “Non abbiamo mai detto e non diremo mai che le nostre città e i nostri centri storici corrono un rischio di desertificazione stanno semplicemente cambiando aspetto”. Così il direttore dell’Ufficio Studi di Confcommercio, Mariano Bella, ha presentato la settima edizione dell’Osservatorio sulla demografia d’impresa nelle città italiane realizzata in collaborazione con il Centro Studi delle Camere di Commercio G. Tagliacarne. Sono state escluse dallo studio le città di Milano, Napoli e Roma perché non è possibile fare una distinzione tra centro storico e non centro storico. Non abbiamo mai detto e non diremo mai che le nostre città corrono un rischio di desertificazione stanno semplicemente cambiando Per i 120 comuni è stato analizzato, dal 2008 a giugno 2021, l’andamento dello stock delle imprese del commercio al dettaglio, inclusi gli ambulanti, ripartito in 11 categorie merceologiche, e dei settori degli alberghi e delle attività di ristorazione. La voce “altro commercio” riguarda sostanzialmente le società che vendono online e porta a porta, i distributori automatici e le vendite per corrispondenza. Le imprese sono state suddivise in base alla location della propria attività: centro storico (CS) e resto del territorio comunale (NCS, non centro storico). Macro-trend totale Italia: tutte le attività ammontano a circa 921mila unità circa, di cui 467mila riguardano il commercio al dettaglio in sede fissa. In nove anni sono scomparsi quasi 85 mila negozi fisici, di cui quasi 4.500 durante la pandemia. “Numeri – ha detto Bella – che potrebbero essere peggiori nella realtà perché ristori e cassa integrazione hanno congelato la demografia”. Inoltre, è immaginabile qualche ritardo delle camere di commercio nella pulizia dei registri; poi, una quota di queste chiusure è dovuta a un processo di selezione e di efficienza che non implica una riduzione dei livelli di servizio. Ma una grossa parte della riduzione è dovuta, purtroppo, alla stagnazione dei consumi di tipo strutturale che affligge l’Italia da tanto tempo. Oggi i consumi in termini reali sono sotto i livelli del 1999 e lo stesso parametro in termini pro capite si colloca sotto i valori del 1998, cioè 17.297 euro del 2021 contro i 17.708 euro di 25 anni fa. Se sommiamo le perdite di ambulanti a quelle del commercio in sede fissa in nove anni spariscono quasi 100mila attività. Nel lungo termine crescono, invece, le attività legate al turismo. Sembra che esse siano cresciute anche durante la pandemia, un aspetto che verrà analizzato e chiarito più avanti. A completare i grandi trend c’è la distinzione delle imprese per cittadinanza del titolare: tra il 2012 e il 2021 le imprese nel complesso di tutti i settori economici sono stabili in numero, effetto di un calo di circa 190mila unità delle italiane e di un analogo incremento delle straniere (la cui quota passa dal 7,8% del totale al 10,6%). Nel commercio spariscono 200mila imprese italiane e ne emergono quasi 120 mila straniere. La quota delle straniere quasi raddoppia in nove anni: dal 10,7% al 19,1%. Stesse dinamiche per l’occupazione: stabile quella degli italiani, in crescita dell’11% quella degli stranieri; e anche qui, considerando il commercio, gli alberghi e i pubblici esercizi, a fronte di 150mila italiani in meno ci sono 70mila stranieri in più. “Sui centri storici – ha osservato Bella – c’è una prima evidenza meritevole di attenzione: la riduzione del dettaglio fisso è leggermente superiore a quella fuori dai centri storici, ma va considerato che il conteggio sconta una diversa struttura urbanistica tra centri e non centri”. Infatti, perdere 4 negozi fuori dal centro magari vuole dire che cinque hanno chiuso e uno più grande ha aperto, con un saldo di meno 4. Nel centro storico queste sostituzioni sono tecnicamente molto più difficili; è per questa ragione che, per quanto riguarda il commercio fisso, le riduzioni nei centri pesano di più proprio con riferimento all’eventuale riduzione dei livelli di servizio. Per quanto riguarda il commercio ambulante, prosegue il processo di razionalizzazione di questo comparto, dentro e fuori dai centri storici. È sempre positiva la dinamica dei pubblici esercizi, anche se la qualità dell’offerta, causa effetto composizione, rischia di deteriorar. Infine, va evidenziata la radicale differenza delle dinamiche tra città del Sud e del Centro-Nord, un primo elemento che può far sospettare di un certo disordine evolutivo nella demografia di queste imprese: va benissimo l’accentuazione della vocazione turistica dell’Italia nell’ultimo decennio, pure tra mille difficoltà. C’è, però, qualche punto interrogativo sul fatto che il numero di alberghi in senso lato nei centri storici del Mezzogiorno sia cresciuto dell’89,3% contro un più “normale” 34% del Centro-Nord. Stessa cosa per le periferie e stessa cosa per bar e ristoranti: questo significa che potrebbero esserci problemi di qualità dell’offerta. I numeri del commercio al dettaglio sono discretamente brutti anche durante la pandemia, tenendo conto del congelamento delle dinamiche demografiche. E sono peggiori nei centri-storici piuttosto che nel resto delle aree delle città. Ipotizzare che i nostri centri storici siano tutti destinati a un ineluttabile spopolamento e desertificazione è una congettura sbagliata e infatti è contraddetta dai dati. All’interno delle città ci sono tipologie di negozi che crescono, e anche molto. Vediamo le dinamiche negli ultimi nove anni per i principali settori: il -16,4% del dettaglio in sede fissa nei centri storici si compone di perdite moderate dei negozi che vengono beni essenziali, come gli alimentari, o che offrono servizi sempre nuovi e più complessi, come le tabaccherie che gestiscono per i clienti anche servizi amministrativi e finanziari, oltre che vendere merci tradizionali. È abbastanza evidente, poi, un effetto composizione dei consumi sulla demografia d’impresa: crescono negozi di telefonia, computer e infotainment domestico e crescono le farmacie. Salute e tecnologia sono poli attrattori dei consumi negli ultimi 20 anni e in particolare negli ultimi 10. Il resto è in discesa, soprattutto i consumi tradizionali: cade il numero di negozi di abbigliamento, calzature, libri, giocattoli, mobili, ferramenta. Questi negozi escono dai centri storici, anzi quasi scompaiono, per trasformarsi nell’offerta delle grandi superfici specializzate fuori dalle città, oppure si riaggregano nei centri commerciali ultra-periferici. Un fenomeno che comporta una minaccia per la vitalità delle nostre città. Niente di nuovo sul fronte carburanti: ormai l’urbanistica dei nostri centri storici ne prevede la sostanziale espulsione e il ricollocamento fuori dai circuiti più strettamente cittadini. È importante notare che la pandemia acuisce questi trend di lungo termine e lo fa con una precisione chirurgica. I settori che hanno tenuto o che stavano crescendo cresceranno ancora, quelli in declino rischiano proprio di scomparire dai centri storici. Il declino del commercio ambulante è legato anche alla razionalizzazione dei posteggi proprio nei centri storici anche per combattere le forme di abusivismo nel settore. Il quale conserva, comunque, una posizione di rilievo sia sul piano economico che sul piano della vivibilità del centro urbano, continuando a svolgere un ruolo di complementarità rispetto alle altre forme della distribuzione commerciale, soprattutto nelle zone dove tendono a scomparire i negozi in sede fissa, in particolare, quelli che vendono prodotti alimentari. Rimane un obiettivo fondamentale che questo canale di vendita sia supportato nella transizione verso un nuovo assetto.
Confcommercio: il commercio tra pandemia e crisi economica (2)
Roma – Crescono alloggio e ristorazione e non è una novità. Abbiamo già evidenziato in passato che una città che si rivolge solo a cittadini-consumatori di passaggio non va verso un equilibrio stabile: con il passare del tempo, una città senza negozi tradizionali diventerà meno gradevole anche per i turisti. Con la pandemia questi temi sembrano assumere una connotazione particolarmente grave. Se sul commercio i trend sono chiari, resta da spiegare perché anche durante gli ultimi anni i registri camerali segnalino una crescita delle attività più colpite dalla crisi, quelle in qualche misura legate al turismo in senso lato, cioè alberghi e pubblici esercizi. In apertura abbiamo visto una crescita tra la fine del 2019 e la metà del 2021 pari all’1,7%, pari a circa 5.600 attività. Certamente ci sono problemi relativi alle cancellazioni effettive e d’ufficio, ci sono questioni relative al congelamento delle attività e all’attesa da parte degli imprenditori di capire se, anche grazie ai ristori, sarà possibile ripartire. Che molte strutture siano chiuse e appaiano come vive nei registri è un fatto certo di cui si ha evidenza in termini di spesa sul territorio: rispetto ai livelli di consumi pre-Covid, ristorazione e alberghi sono ancora distanti con percentuali comprese tra il -20% e il -35%. Partendo dagli alberghi effettuiamo la distinzione tra alberghi propriamente detti e altre strutture ricettive, le quali ultime hanno connotazioni poco strutturate; in più distinguiamo tra città d’arte – qui ne abbiamo scelte tre importanti – e il resto dei comuni medio-grandi oggetto di questo monitoraggio. Si vede bene che a crescere sono le strutture di alloggio tipo B&B o appartamenti per soggiorni brevi o di altro genere, mentre gli alberghi veri e propri sono fermi. Se guardiamo alle città d’arte le cancellazioni di strutture tradizionali sopravanzano le eventuali poche iscrizioni, determinando un saldo negativo dell’1,9%. Quindi questo conferma le nostre paure: nei centri storici delle città, soprattutto quelle più vocate al turismo, alla riduzione degli esercizi commerciali la pandemia ha inflitto il fenomeno del tutto nuovo della riduzione degli alberghi favorendo una crescita tumultuosa delle altre attività di alloggio. Rimane da capire la dinamica dell’aggregato bar e ristoranti; separando i bar dal resto, questi appaiono in riduzione piuttosto netta ed è quasi doppia, negli ultimi due anni, nei centri storici delle città d’arte rispetto agli altri centri storici. Infine, analizziamo la ristorazione. Il problema è che l’Istat mette dentro attività piuttosto eterogenee dentro l’ATECO 51: dai ristoranti veri alle friggitorie ai take away e così via. Insomma, accanto ai locali con vero e proprio servizio c’è tutta l’area dello street food. È pertanto complesso stabilire i movimenti rilevanti che determinano questa strana crescita in tempi di pandemia. Qualche congettura affidabile si può fare; la prima è l’effetto composizione determinato da uno spostamento tra sotto-codici ATECO all’interno degli aggregati, l’abbiamo in parte visto nella chart precedente: una quota dei bar si è trasformata in esercizi con somministrazione (il permesso di tenere per esempio i tavolini all’aperto con maggiore facilità ha spinto in questa direzione). Inoltre, una quota di ristorazione senza somministrazione, tipo take away si è mossa nella stessa direzione e questo lo vediamo indirettamente dall’incremento di quota di imprenditori stranieri nella ristorazione tradizionale che provengono da quella senza somministrazione. È presto e sarebbe comunque improprio parlare di una riduzione della qualità della ristorazione, soprattutto nei nostri centri storici, ma senz’altro è un tema da seguire da vicino, anche perché collegato alle criticità che variamente emergono sulla gestione della movida. Un ultimo aspetto è la relazione tra commercio fisico e commercio on line. “Resta confermato – ha detto Bella – l’elevato grado di sostituibilità tra canali fisici e canale virtuale, sebbene la riduzione del numero dei negozi abbia largamente a che fare con la stagnazione dei consumi e un naturale processo di ricerca di efficienza della distribuzione commerciale (omnicanalità, economie di scala, produttività)”. Va comunque ricordato che il commercio online ha aiutato e aiuta molti negozi a fare business meglio e in modo più innovativo rispetto al passato: ma in termini macroeconomici, prevale la relazione di sostituzione tra canali. Relazione competitiva la cui intensità si acuisce in conseguenza degli eventi pandemici. “Inutile farsi illusioni – ha sottolineato Bella – la competizione tra canali è destinata a intensificarsi, in conseguenza della pandemia; le vendite di servizi online recupereranno, quelle dei beni non si ridurranno”. Il presidente di Confcommercio, commentando l’analisi dell’Ufficio Studi sull’evoluzione delle strutture commerciali e turistiche delle città italiane ha sottolineato che “pandemia e stagnazione dei consumi hanno acuito la desertificazione commerciale delle nostre città e rischiano di ridurre la qualità della vita di turisti e residenti”. “Per scongiurare questa eventualità bisogna sostenere con maggior forza le imprese più colpite, soprattutto quelle della filiera turistica e utilizzare presto e bene le risorse del PNRR per migliorare il tessuto economico urbano e quindi l’attrattività e la sicurezza e delle nostre città”.