Mestre (Ve) – Se le nostre Pmi hanno un carico fiscale complessivo che si attesta al 59,1 per cento dei profitti, le multinazionali del web presenti in Italia, o meglio le controllate di questi giganti economici ubicate nel nostro Paese, registrano un tax rate del 33,1 per cento. Entrambi i dati si riferiscono al 2018. Afferma il coordinatore dell’Uffici studi della CGIA Paolo Zabeo: “Premesso che i dati sono desunti da fonti diverse, quindi non comparabili da un punto di vista strettamente scientifico, è comunque verosimile ritenere che sulle piccole imprese il carico fiscale sia quasi doppio rispetto a quello che grava sui giganti tecnologici presenti in Italia. Un’ingiustizia che grida vendetta, non tanto perché su questi ultimi grava un peso fiscale relativamente contenuto, ma per il fatto che sulle nostre Pmi il peso delle tasse e dei contributi è tra i più elevati d’Europa”. Tra i Paesi dell’Area dell’euro, infatti, i dati della Banca Mondiale ci dicono che solo la Francia (con il 60,7 per cento) registra una pressione fiscale sui profitti delle imprese superiore alla nostra, contro una media dei 19 Paesi che utilizzano la moneta unica pari al 42,8 per cento. Un dato, quest’ultimo, di oltre 16 punti percentuali inferiore al dato medio presente in Italia. 1 The World Bank, “Doing Business 2020”, october 24, 2019 2 Area Studi Mediobanca, “I giganti del websoft”, 27 novembre 2019. Le multinazionali del web con filiali presenti in Italia al centro dello studio di Mediobanca sono: Amazon, ADP, Alphabet, Apple, Booking, Microsoft, Oracle, Otto, Qurate Retail, Salesforce, SAP, Vipshop e Uber Technologies. Quali sono le ragioni per cui le controllate italiane delle principali multinazionali del web possono beneficiare di un tax rate del 33,1 per cento? Per il semplice motivo che la metà dell’utile ante imposte è tassato in Paesi a fiscalità agevolata che procura un risparmio fiscale che, nel periodo 2014- 2018, ha sfiorato complessivamente i 50 miliardi di euro. Tuttavia, non sono solo i giganti stranieri del web a sfruttare la fiscalità di vantaggio concessa da molti Paesi. Anche i grandi player italiani, da anni hanno trasferito la sede legale principale, o di una consociata, all’estero. Stiamo parlando, ad esempio, di FCA, Eni, Enel, Ferrero, Telecom, Saipem, Luxottica Group, Illy, etc. Molte holding di casa nostra hanno deciso di spostarsi nei Paesi Bassi, ad esempio, perché in questo paese è possibile beneficiare sia di una legislazione societaria molto favorevole – che permette agli azionisti storici di avere il doppio dei voti in assemblea, modalità che consente di difendersi meglio da eventuali scalate provenienti da investitori stranieri – sia dal trattamento tributario molto generoso che il governo olandese riserva a ogni big company disposta ad aprire la sede fiscale ad Amsterdam. Con queste operazioni, formalmente ineccepibili da un punto di vista fiscale-societario, si è però ridotta la base imponibile di coloro che pagano le tasse in Italia, penalizzando in particolar modo le realtà imprenditoriali di piccola dimensione che, a differenza delle grandi aziende, non hanno la possibilità di lasciare armi e bagagli e trasferirsi altrove. Come abbiamo visto in precedenza, oltre ad avere la pressione fiscale sulle imprese tra le più elevate d’Europa, l’Italia è il Paese, assieme al Portogallo, dove pagare le tasse è più difficile. Sempre dai dati presentati recentemente dalla Banca Mondiale (Doing Business 2020), da noi sono necessari 30 giorni all’anno (pari a 238 ore) per raccogliere tutte le informazioni necessarie per calcolare le imposte dovute; per completare tutte le dichiarazioni dei redditi e per presentarle all’Amministrazione finanziaria; per effettuare il pagamento on line o presso le autorità preposte. In Francia, l’unico Paese UE con un carico fiscale sulle imprese superiore al nostro, per espletare le incombenze burocratiche derivanti dal pagamento delle tasse sono necessari solo 17 giorni, mentre la media dell’Area dell’Euro è di 18 giorni.